Odori molesti: quando sono un reato e come affrontare il problema

Pubblicata da GeoNose il 18 Febbraio 2020
Approfondimento

L’evoluzione della normativa e le responsabilità sulle emissioni odorigene

La puzza può essere un reato? Leggendo qualche articolo di cronaca e attenendosi a quanto prevede il Codice Penale nell’art. 674, parrebbe di sì. In realtà il tema è più complesso e articolato di quanto sembri a prima vista.

Spesso il cattivo odore è percepito come segno di un ambiente degradato o inquinato. A differenza del rumore e delle emissioni elettromagnetiche, le norme ambientali italiane non fissano dei limiti precisi per regolamentare le emissioni olfattive.

In questo articolo abbiamo approfondito il tema degli odori molesti e di come possono essere segnalati. Ma cerchiamo ora di capire come si è evoluta la giurisprudenza in materia e come si possono limitare le molestie olfattive.

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L’art. 674 del Codice Penale e i criteri di tollerabilità e legittimità

Finora l’assenza di limiti normativi che consentissero di determinare la liceità delle emissioni odorigene ha fatto sì che tali emissioni fossero punite penalmente e sulla base delle valutazioni del Giudice.

La molestia olfattiva è stata praticamente sempre ricondotta alla fattispecie di getto pericoloso di cose, disciplinata dall’art. 674 del Codice Penale, che punisce chi “getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”.

Il vuoto normativo ha portato la giurisprudenza a fondare le proprie valutazioni sul criterio della tollerabilità e quindi la legittimità delle emissioni odorigene era, di fatto, subordinata alla percezione soggettiva dei soggetti interessati dalle stesse emissioni e il giudizio si basava spesso sulle loro testimonianze.

L'evoluzione normativa

Da relativamente pochi anni si può notare un trend evolutivo nella normativa di riferimento che riguarda l’approccio al problema del controllo delle emissioni odorigene.

Nel tempo si è passati dal semplice riconoscimento che il problema esiste, alla formulazione di norme specifiche per limitare le problematiche olfattive attraverso la definizione di odore come forma di inquinamento atmosferico.

Si è poi arrivati a fissare metodi per la misura obiettiva e di limiti da rispettare attraverso:

  • norme tecniche, che illustrano i metodi di misura;
  • numerose linee guida a carattere regionale che propongono dei limiti alle emissioni olfattive in uscita da specifici impianti;
  • oppure linee guida regionali che riguardano tutti gli impianti e propongono dei valori limite di accettabilità ai recettori.

Cronologicamente, queste tappe non sono così lineari, ma dimostrano che è cresciuta la consapevolezza rispetto a questo problema e a come affrontarlo.

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La classificazione delle industrie insalubri e le competenze dei Comuni

Il primo modo per tentare di risolvere il problema dell’inquinamento da odori è rendersi conto che vengono prodotti da qualsiasi tipo di installazione impiantistica e/o di ristorazione.

La tendenza della normativa italiana è cercare di “allontanare” le installazioni origine di molestia olfattiva o di relegarle ad aree confinate del territorio.

E’ ancor oggi il Regio Decreto n. 1265 del 1934 che stabilisce i criteri per la localizzazione di determinate tipologie impiantistiche in modo da limitare gli effetti sulla popolazione. Il Decreto definisce anche le industrie insalubri (quelle che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o possono risultare pericolose per la salute degli abitanti) e le suddivide in due grandi classi:

  • industrie che vanno isolate nelle campagne (prima classe);
  • industrie che esigono speciali cautele per l’incolumità del vicinato (seconda classe).

E’ il Sindaco che prescrive le norme per limitare il pericolo sulla popolazione attraverso una programmazione urbanistica a livello locale.

Il D.M. del 5 settembre 1994 “elenco delle industrie insalubri di cui all’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie” riporta nella prima classe le lavorazioni suscettibili del rilascio di sostanze odorigene (quali allevamenti di animali, concerie, distillerie, inceneritori, macelli, salumifici con macellazione, scuderie, depositi ed impianti di depurazione e trattamento rifiuti). Tali prescrizioni di tipo preventivo, sono ancora oggi le uniche in grado di intervenire sui fenomeni di molestia olfattiva.

La tendenza è quella di operare concretamente sui Comuni, affinché rispettino e facciano rispettare le norme, all’interno di una seria programmazione urbanistica, prevedendo un’adeguata collocazione territoriale anche a rispetto del principio di precauzione.

In questa prima fase sono di fondamentale importanza le norme codicistiche che permettono di sanzionare particolari fattispecie illecite. In particolare la norma che limita le immissioni di fumo o di calore tra fondi (art. 844 del Codice Civile) e la norma, nata per difendersi da chi lancia mozziconi di sigaretta dalla finestra (art. 674 del Codice Penale), sono spesso ancora oggi l’unica, fragile barriera contro l’inquinamento.

Le norme per limitare i problemi olfattivi (D.Lgs. 183/2017)

E’ solo dal 2017, con il D. Lgs. 183 che è stato introdotto nel Testo Unico Ambientale anche il problema degli odori. Gli odori, infatti, pur rappresentando un impatto ambientale importante per uno stabilimento produttivo ed essendo la fonte principale delle eventuali criticità nei rapporti con il territorio circostante, non erano fino a quel momento contemplati dal Testo Unico sull’Ambiente.

La norma non presenta alcun effetto immediato per i gestori degli impianti, ma sancisce la possibilità per le norme regionali e per le Autorità competenti, in sede autorizzativa, di prevedere misure di prevenzione e limitazione apposite per le emissioni odorigene. Così facendo, dà il suo nulla osta alle norme regionali, che nel frattempo erano state pubblicate in diverse regioni italiane, vista la carenza di norme nazionali univoche. Tale articolo, inoltre, ribadisce l’importanza dei criteri localizzativi e della pianificazione urbanistica come strumento per limitare il sorgere di problematiche di impatto olfattivo.

Il D. Lgs. 183/2017 ha sancito in modo inequivocabile che le emissioni odorigene sono a tutti gli effetti una forma di inquinamento soggette a limiti e il superamento degli eventuali limiti stabiliti in autorizzazione è sanzionabile, secondo l’art. 279 del D. Lgs. 152/2006.

Il nuovo art. 272-bis interviene, dunque, a colmare questa lacuna, così che anche i giudici potranno valutare la legittimità delle emissioni odorigene su dati oggettivi e misurabili, forniti anche da provvedimenti regionali o dalle stesse autorizzazioni che governano l’esercizio dello stabilimento.

Non presenta novità o modifiche immediate per i gestori degli impianti, ma richiederà un approccio diverso da parte degli Organi di Controllo, perché le Regioni sono spinte a normare e le Autorizzazioni dovranno contemplare l’odore. Inoltre la modifica del Testo Unico ha sottolineato che l’odore è misurabile ed ha definito le sue unità di misura. Questo fatto segna, in qualche modo, una svolta rispetto alla prassi consolidata in giurisprudenza.

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Bastano le autorizzazioni per essere in regola?

L’assenza di un’autorizzazione all’esercizio dell’attività, nei casi in cui sia prevista, di per sé non determina automaticamente che si tratti di un reato. Lo stesso ragionamento vale se è stata concessa l’autorizzazione per l’esercizio dell’impresa, ma le emissioni odorigene sono diverse da quelle autorizzate.

Quelle che vanno prese in considerazione, nella prospettiva del bilanciamento tra opposti interessi, sono esclusivamente le emissioni strettamente connaturate allo svolgimento dell’attività produttiva.

Pertanto, per determinare se si tratta di reato, è essenziale:

  • verificare le modalità di esercizio dell’impresa perché le emissioni non connesse all’attività produttiva devono classificarsi tra quelle “non consentite” quando sia dimostrata la loro effettiva portata molesta;
  • adottare il criterio per cui il datore di lavoro ha l’obbligo di impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione nei luoghi di lavoro delle polveri, fumi, gas o vapori “per quanto è possibile” e cioè ponendo in essere tutte le misure oggettivamente praticabili secondo lo sviluppo delle tecnologie di prevenzione.

Di conseguenza devono ritenersi “non consentite” le emissioni eliminabili o riducibili al massimo livello possibile adottando le misure e gli accorgimenti adeguati al progresso tecnologico in funzione della specificità delle lavorazioni.

Possiamo ritenere questo un buon punto di equilibrio tra ragioni della produzione e della tutela ambientale.